Che ci importa della Fed

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Nessuno sapeva che cosa sarebbe accaduto

Nel gennaio del 2008, la grande recessione era appena iniziata.
 
L’allora presidente della FED, Ben Bernanke aveva appena lanciato lo ZIRP: l’inizio della politica dei tassi di interesse a zero.
 
Insieme con quello, imparammo ad usare un’altra sigla: il QE, l’ulteriore politica di allentamento monetario.
 
Nessuno, in realtà, era in grado di valutare le conseguenze di quella che poi sarebbe diventata una nuova era per la finanza mondiale: per i successivi 13 anni i tassi di interesse degli Stati Uniti rimasero vicino allo zero.
 
All’inizio dell’epoca pandemica, venne raggiunto lo zenit assoluto dello ZIRP, con il massimo dei prezzi del Tesoro e bassi rendimenti e tassi di interesse.
 
La politica accomodante della FED permise di coprire l’enorme bisogno di fondi per sostenere l’economia vacillante a causa della pandemia. E funzionò, anche molto bene.
 
Nei 12 anni precedenti, l’inondazione di denaro liquido non usciva dal circuito banche-FED, alimentando in sostanza la crescita esponenziale del mercato azionario, ma senza creare inflazione.
 
Con la pandemia, il denaro stampato in eccesso inondò le tasche dei cittadini, creando una crisi di eccesso di liquidità: troppi soldi per comprare troppi pochi beni. Questo significa esplosione dei prezzi, cioè inflazione. La più alta da 40 anni.
 
L’esplosione dell’inflazione negli Stati Uniti ha diffuso il medesimo contagio in tutto il mondo: l’Europa, in preda più che mai a interruzioni continue delle catene di fornitura, con una crisi energetica in crescita e poi scoppiata drammaticamente con il conflitto russo-ucraino, è caduta in modo altrettanto drammatico nella stessa crisi inflattiva.
 
La Fed, lo ricordano tutti, rifiutò di prendere in considerazione seriamente la spinta inflazionistica, considerandola temporanea: tutti ricordano il “persistente e transitoria”, parole di Powell riferite all’inflazione, ma degne di un democristiano dell’epoca andreottiana.
 
La Fed ha giudicato male il fenomeno. E sono in molti ad incolpare la Fed della sottovalutazione di cui si sarebbe resa colpevole.
 
Se la Fed ha sottovalutato, il governo degli Stati Uniti, prima con Trump e poi con Biden non hanno certo favorito la situazione: Trump con le sue politiche tariffarie di importazione merci da paesi esteri, che hanno disturbato e talvolta interrotto le catene di approvvigionamento, causando una drastica riduzione della disponibilità di merci e mettendo in crisi anche i produttori, cui sono venuti a mancare componenti fondamentali.
 
Biden, come primo atto, ha interrotto i lavori del Keystone Pipeline, di fatto togliendo una fonte di energia necessaria ai produttori, in nome delle alternative energetiche sulle rinnovabili. Nobile intento salvare il pianeta, un po’ azzardato il timing dell’intervento.
 
Ancora Biden ha aggiunto ulteriori piani di stimolo all’economia, dopo quelli già messi in opera da Trump: esaltando ancora di più la capacità di domanda, senza intervenire sul rafforzamento dell’offerta, che è la vera causa principe del problema inflattivo.
 
Troppi soldi, come dicevo sopra, a caccia di troppi pochi beni.
 
A ben vedere, la Fed ha le sue responsabilità nell’individuazione tardiva della crescita dell’inflazione come fenomeno non momentaneo, ma strutturale. Certamente, però, le circostanze e le decisioni del governo USA avevano creato le condizioni ideali per una esplosione dell’inflazione.  
 
Molti analisti hanno parlato di “perdita di controllo” da parte della Fed, a causa della incapacità mostrata nell’anticipare l’aumento dell’inflazione.
 
Ora, i mercati stanno sfidando la Fed a “riacquisire il controllo”, a modo loro ovviamente. Attualizzando un regime di tassi inferiore a quello previsto dai governatori della Fed, di circa 0.75 punti base.
 
Secondo le nostre stime, i risultati raggiunti finora nella diminuzione della inflazione negli Stati Uniti sono significativi e l’inflazione è destinata negli ultimi tre trimestri del 2023 ad essere domata. Questo significherebbe che la recessione potrebbe non essere così scontata o necessaria.
 
Nondimeno, la Fed, a nostro parere, non può mollare ora. I mercati possono anticipare le tendenze, la Fed deve attenersi ai dati reali, concreti ed attuali.
 
Non c’è tempo per rinviare un ulteriore aumento dei tassi, che non può essere, secondo noi, inferiore a 0.50 punti.
 
Il mercato non sembra crederci.
 
La Fed è tornata nel pieno controllo della situazione, se mai, in qualche momento, il controllo lo avesse perso.
 
L’1 febbraio vedremo se il compito di domare l’inflazione può rallentare ora oppure no. Secondo noi, è presto. Il mercato scommette che è ora.
 
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Maurizio Monti

  Editore TRADERS’ Magazine Italia