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Fiducia o Fallimento, Trump si gioca tutto

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Opinioni autorevoli.

L’opinione di Goldman Sachs

L’S&P500 è arrivato a solleticare quota 6000, a -3% circa dal massimo storico, ma all’87.50% del range da minimo a massimo della discesa 20 febbraio-8 aprile.

E’ proprio dell’8 aprile scorso un rapporto di Goldman Sachs, nel quale si distinguono tre tipologie diverse di mercati ribassisti:

  •    Dovuti ad eventi (Event-driven)
  •    Ciclici
  •    Strutturali

I mercati ribassisti event-driven sono dovuti ad uno shock momentaneo, che non influenza la ciclicità né conduce a conseguenze recessive.

Con il senno del poi, il crollo di febbraio-marzo 2020 è un mercato ribassista event-driven, una reazione al nuovo scenario determinato dalla pandemia.

Un anno come il 2022 possiamo considerarlo come ribasso ciclico, accompagnato da un rialzo dei tassi di interesse. Alle volte, nel mercato ribassista per cause cicliche possono essere indotti fenomeni recessivi e calo degli utili delle imprese.

Secondo Goldman, i mercati ribassisti strutturali sono quelli dove esistono squilibri strutturali o bolle finanziarie: sono i ribassi più profondi e duraturi, che possono durare un paio di anni, con perdite di valore oltre il 34%.

Goldman Sachs ritiene di classificare il ribasso febbraio-aprile 2025 come un “event-driven”: in questo caso dovuto al Liberation Day di Trump.

Destinato quindi a passare rapidamente: come sembra voler confermare il potente recupero cui abbiamo assistito fino al 19 maggio. Una volta che il mercato ha passato la paura è tornato al rialzo.

E’ pur sempre l’opinione di Goldman Sachs.

E se non fosse così?

Significherebbe che siamo sull’orlo di un precipizio più consistente a carattere ciclico o strutturale.

Questo non esclude che non possa proseguire il rialzo in corso, andando a fare nuovi massimi storici.

In realtà, se è vero che il ribasso è stato certamente un event-driven, è pur sempre altrettanto vero che il mercato ha dato sintomi di instabilità precedenti al Liberation Day, facendo una figura di triplo massimo piuttosto sinistra.

Vengono quindi almeno due dubbi sul piano di un possibile “ribasso strutturale”: la sostenibilità del debito e lo squilibrio commerciale degli Stati Uniti. Vale a dire quello che Trump pretende di riequilibrare con i dazi.

Un deficit commerciale significa che gli Stati Uniti comprano più beni di quelli che riesce a vendere.

Ma gli Stati Uniti detengono la valuta mondiale di riferimento: quando acquistano, inondano di dollari il paese venditore.

Quei dollari vengono impiegati, almeno parzialmente, in attività finanziarie degli Stati Uniti, in titoli obbligazionari o azionari e finiscono nelle riserve delle principali banche centrali.

Il deficit commerciale, nel 2024, ha raggiunto 1.13 trilioni di dollari.

Trump vuole ridurre… o, nelle sue pie illusioni, azzerare questo deficit: di lì i suoi bizzarri discorsi sul fatto che gli altri paesi stanno “fregando” gli Stati Uniti.

Guerra commerciale: le conseguenze

E’ brutto citarsi, ma nel mio saggio sul Grande Crollo del 1987, ho descritto un antefatto precedente all’evento: il deficit commerciale degli Stati Uniti e la conseguente guerra valutaria che ne è scaturita.

Era il 14 ottobre del 1987 quando Clayton Yeutter, Capo del dipartimento del commercio estero degli Stati Uniti, dichiarò a fronte di un deficit commerciale degli USA di 15.6 miliardi (immenso per l’epoca) che “era stata intrapresa la strada giusta”, perché nel mese precedente il deficit era di 16.47 miliardi.

Nei mesi precedenti, con il cosiddetto “Accordo del Louvre”, sette paesi occidentali definirono una “banda di oscillazione” delle loro valute.

L’annuncio del 14 ottobre, che apparve ai più una presa in giro degli USA, creò un potente deprezzamento del dollaro.

Nel contempo, cominciò a creare qualche preoccupazione alle borse, che vedevano di fatto l’annuncio di una difficile guerra valutaria: quel giorno il Dow Jones perse il 4%, ma era solo l’antipasto di un pranzo che sarebbe stato molto complesso da digerire.

Era Trump

Come spesso avviene nelle amministrazioni repubblicane, il dollaro si è molto deprezzato dal momento dell’insediamento del nuovo presidente.

Il problema, come nel 1987 (ma anche come molte altre volte in passato), è il rischio di un deflusso pesante dagli asset degli Stati Uniti, e, comunque, di uno spostamento di capitali per cifre immense che vengono riallocate nel mondo.

Un deficit commerciale in calo porterà i paesi che detengono asset statunitensi a ridurre la loro esposizione in dollari.

La politica tariffaria ridurrà il deficit commerciale, con conseguenze che possono essere tutt’altro che prevedibili sul mercato dei capitali.

Il nazionalismo commerciale porta al nazionalismo sulle valute.

La posizione patrimoniale netta

Il divario tra attività a passività è definita come posizione patrimoniale netta sull’estero.

Gli Stati Uniti hanno un saldo negativo di posizione patrimoniale netta di circa 26 trilioni di dollari: cioè gli altri paesi hanno investito negli Stati Uniti 26 trilioni di dollari in più di quanto gli Stati Uniti abbiano investito all’estero.

Altro che “fregature” che gli Stati Uniti avrebbero subito, secondo l’ideologia Trump.

Riallocazione del mercato dei capitali

Uno squilibrio determinato dall’applicazione di tariffe incongrue, determineranno uno spostamento sul mercato dei capitali europeo e asiatico.

Il Pil degli USA rappresenta il 26% del PIL globale: ma gli USA pesano con il 71% sull’indice.

Non è una questione di voler prevedere il futuro.

Trump ha ancora tempo per correggere totalmente la propria impostazione politica: se la sua “politica degli affari” avrà successo, altro denaro potrebbe affluire negli Stati Uniti.

Se continuerà a fare quello che ha fatto finora, sarà la credibilità degli Stati Uniti ad essere messa in pesante e seria discussione: e questo non può deporre a favore di un incremento degli investimenti negli Stati Uniti, quanto, piuttosto ad una correzione dei già significativi squilibri esistenti.

Tassi di interesse

Le aste recenti e il comportamento dei future aventi come sottostante i bond americani continuano a dimostrare che gli investitori pretendono interessi più elevati per accollarsi il rischio del debito USA.

Se Trump riuscirà nel suo intento di far affluire denaro nell’economia degli USA da altri paesi, rafforzerà la domanda di beni statunitensi. Se riuscirà a ridurre lo squilibrio commerciale, la tensione sul debito diminuirebbe e porterebbe ad una minore richiesta di interessi elevati da parte degli investitori.

Paradossalmente, i tassi di interesse reali, da questo punto di vista, sono più nelle sue mani che nelle mani di Powell.

Le nubi all’orizzonte

Qualunque saranno le decisioni a livello di politica commerciale, è impensabile che l’applicazione di dazi non porti ad un periodo molto doloroso per l’economia americana.

Sarà migliore nel lungo termine? Sai… a lungo termine… ricordi Keynes?

Il disegno di legge sulla “Beautiful Bill” aumenta il deficit di bilancio: in questo senso, DOGE o non DOGE, Musk o non Musk, o altre idiozie consimili, non c’è nessuna differenza rispetto alle precedenti amministrazioni. Il debito cresce.

C’è un tempo in cui un debitore può mantenersi credibile emettendo debito in modo progressivo. Può esserci un tempo in cui i creditori non hanno più alcuna intenzione di comprare quel debito se diventa troppo rischioso.

La prospettiva

Potremmo vedere il più grande sviluppo di tutti i tempi nell’era Trump. Non capisco come, confesso, ma sarò pur prevenuto io e lui, magari, è il genio messianico che cerca di apparire.

Potremmo vedere, anche, un clamoroso tracollo dei mercati, un vortice lungo da cui potrebbe essere difficile uscire.

maurizio monti

 

 

Maurizio Monti
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Leggi anchel l’Analisi del mercato di Maurizio Monti

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