Pensieri di un arretrato

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La Brexit e i cosmopoliti ignoranti

Mi è capitato, dopo il mio articolo della scorsa estate a commento dell’uscita del Regno Unito dalla Unione Europea (commento del tutto favorevole alla Brexit, come i lettori ricorderanno) di incontrare il dissenso di certuni, i quali mi hanno eccepito che non avrei compreso la dimensione sovrannazionale nella quale si muovono ora le giovani generazioni ecc. ecc. Pertanto, pur ritenendo di essere stato abbastanza chiaro, con il permesso di chi mi legge ritorno di nuovo sull’argomento.

Come ho già detto: nessuna fede ingenua, da parte mia, in un qualche idillio rurale; nessun rimpianto per gli Stati chiusi e sospettosi verso lo straniero; massimo favore per la libera circolazione di idee e cognizioni. Quello che semplicemente volevo significare, oltre ad altre cose per le quali rimando al mio articolo, è che non esiste il diritto di stabilirsi a Londra (o in qualsiasi altra parte del Mondo) solo perché ci piace. Forse i giovani “colti e cosmopoliti” ignorano che esistono gli Stati, che questi Stati hanno le loro leggi in materia di immigrazione, di trattamento dello straniero ecc., e che pertanto la comprensibile aspirazione a stabilirsi e studiare in un certo Paese deve fare i conti con le priorità, gli interessi e le condizioni sociali ed economiche del Paese stesso, che nel decidere queste priorità rimane (e deve rimanere) pienamente sovrano; sembra però che ad enunciare questa semplice verità si passi per ignoranti, arretrati e malvagi agli occhi dei nostri sciocchini presuntuosi.   

Vent’anni dopo

Gli stessi sciocchini di cui sopra, quando sono intervistati dai nostri giornali, ci annoiano con la solfa, trita e ritrita, che dalle loro relazioni con studenti di tutto il mondo “sono stati immensamente arricchiti ecc. ecc.”; al che si potrebbe replicare facilmente che, a dispetto di tutto questo presunto arricchimento culturale reciproco e di vent’anni di globalizzazione:

1) oggi l’Occidente non sta proprio eguagliando l’Italia del Rinascimento o la grande Vienna fra XIX e XX secolo; al contrario, non solo l’inizio di questo millennio appare alquanto sterile in campo artistico, letterario e filosofico, ma il livello medio di cultura si è ulteriormente abbassato (“Dove tutti sanno poco, si sa poco” – scriveva Leopardi);

2) a corollario del precedente: un’epoca in cui la definizione di “creativo” viene ormai data ai ragazzotti che escogitano nuove “app” per gli smartphones non è poi messa tanto bene;

3) gli studenti in questione mi ricordano pericolosamente la ragazza di quel film degli anni Settanta di Nanni Moretti, la quale  di se stessa sapeva solo dire: “Vedo gente e faccio cose”.

Made in Italy

Mi ricollego a quanto detto nel paragrafo precedente per una incursione nell’economico; alla lunga, farà bene alla stessa economia la progressiva scomparsa delle identità nazionali? Tutti sono pronti a riconoscere che il made in Italy è un marchio di qualità che consente di farsi largo sui mercati internazionali; e naturalmente vale lo stesso per il made in Germany e così via. Ma ben pochi si fermano a riflettere che queste espressioni significano in realtà nient’altro che: fatto da Italiani e: fatto da Tedeschi; si vuol dire cioè che se uno compra un prodotto italiano o tedesco è perché vuole che abbia certe caratteristiche, che sono proprie di quella tradizione artigianale, industriale, estetica e così via; nessuno comprerebbe una Ferrari progettata e prodotta in Polonia, tantomeno in Cina. Ed allora, se le persone, anche limitandoci al nostro Continente, diventassero tutte eguali ed intercambiabili, sarebbero ancora in grado di produrre certe eccellenze, ossia valore aggiunto per la stessa economia dell’Europa?

Ragione contro razionalità economica

La razionalità economica dice all’imprenditore che è meglio produrre nei Paesi dove i costi della manodopera sono più bassi, per poi importare i prodotti e venderli ai consumatori ad un prezzo più contenuto. Però, la ragione ci dice che i consumatori e i lavoratori sono in realtà le stesse persone e che, se il processo di delocalizzazione delle manifatture diviene generale, i disoccupati e i sottoccupati che nel frattempo si siano venuti a creare non saranno più in grado di sostenere i livelli di consumo precedenti. Altro esempio: quando il petrolio costa poco, la razionalità economica dice: perché spendere soldi nel cercare fonti alternative di energia quando c’è il petrolio mediorientale a buon prezzo?

La ragione ci dice invece che perpetuare la nostra dipendenza energetica da Paesi politicamente inaffidabili e pericolosi può portare a danni, anche economici, enormi. Terzo esempio: la razionalità economica porta l’industria alimentare a pagare sempre meno, addirittura sottocosto, gli agricoltori italiani per i loro prodotti, o a comprare gli stessi prodotti all’estero; ma la ragione (e lascio qui da parte la norma etica che ci dovrebbe vietare di prendere per il collo il nostro prossimo) ci dice che, così facendo, si costringono le nostre aziende agricole a chiudere una dopo l’altra, e si fa scomparire una produzione di qualità che costituisce invece una immensa riserva di valore economico. Sono solo tre esempi della possibile – sottolineo: possibile, non necessaria – divaricazione fra la pura razionalità economica e la ragione (o ragionevolezza), e delle conseguenze negative alle quali l’applicazione esclusiva e totalitaria della prima può portare. Il discorso sarebbe lungo, ma ho l’impressione, quando leggo articoli di economia o interviste a dirigenti d’azienda, che nella mente di molti questa capacità di ragionare per termini generali anziché solo per interessi particolari sia pericolosamente assente.

La gente “smart” odia i mattoni (altrui)

E qui siamo al punto: il fatto cioè che le classi dirigenti dell’Occidente tendono a ragionare solo in termini economici. Il paradosso, però, è che questo modo di ragionare finisce per avere conseguenze disastrose sull’economia stessa. Ad esempio, non si tiene conto che le persone intraprendono una certa attività invece che un’altra, si dànno a certi studi anziché ad altri, comprano un certo bene anziché un altro,  per ragioni che possono andare dal prestigio sociale al desiderio di fare qualcosa per i figli, dall’autoaffermazione al semplice piacere personale, dal rispetto per le tradizioni al desiderio di rompere con le stesse, per ragioni insomma nessuna delle quali rientra strettamente nella categoria della mera utilità economica. E tuttavia queste ragioni – di cui si tiene conto sempre meno nel pensiero tecnocratico dominante – sono a loro volta motivazioni foriere di conseguenze economiche rilevantissime; credete che un precario a vita abbia i mezzi e soprattutto gli stimoli per comprare una casa, curarne l’arredamento, comprare suppellettili di un certo pregio, procedere a migliorie estetiche e funzionali?

Credo di no, eppure anche il breve catalogo di cui sopra dovrebbe mostrarci quanta gente in realtà beneficerebbe di quella cosa semplice ma tanto fuori moda che è l’amore per la propria dimora: architetti, geometri, capimastri, muratori, fabbricanti e venditori di mobili e di arredi per il bagno, artigiani di ogni genere ecc. E tuttavia, le attuali sedicenti élites, tutte protese ad imporre con la forza l’utopia dell’Uomo Nuovo del Millennio, lo Sradicato Totale che nel corso della sua vita dovrebbe saltabeccare da un continente all’altro per inseguire le occasioni di lavoro che la Cosmopoli Globale gli offrisse di volta in volta, e che guardano con orrore a tutto quanto abbia un minimo sentore di radicamento o di semplice stabilità, ci insegnano – tenendosi ben stretti le loro ville e i loro loft finto-poveri – che amare la propria casa è roba da gente volgare e arretrata.

Il cerchio si chiude

Concludo questo breve catalogo di “pensierini” con una domanda: se ciò che vale per i singoli vale a maggior ragione per interi popoli, e se l’individuo che non può contare su un minimo di stabilità e di certezze per il suo futuro non può nemmeno giovare all’economia, come si può credere che un’intera nazione – ed è oggi il caso dell’Italia – possa avere la voglia di ingegnarsi, di darsi da fare, di pensare al futuro e, in una parola, di ridiventare prospera se quelli che la governano la lasciano in balìa di un’immigrazione incontrollata e quelli che pretendono di esserne la guida spirituale (Papa e Vescovi) plaudono all’invasione?Nato in Reggio Emilia il 5/09/1967
Maturità Classica al Liceo L. Ariosto di Reggio Emilia Premio Straordinario Lyons Club di Firenze al Certamen Classicum Florentinum anno 1986 Laurea in Giurisprudenza all’Università di Modena Avvocato del Foro di Reggio Emilia
Vive e lavora in Rubiera (RE)