Lo spettro del 2011

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Il posto sbagliato al momento sbagliato

La crisi bancaria che imperversa, per ora, (solo?) negli Stati Uniti è un argomento sufficiente, di per sé, per intimorire i mercati e gli investitori.

Ma la crisi potenziale di cui parliamo da tempo e di cui avvisiamo i nostri lettori da almeno otto settimane è ben più grave e può avere conseguenze non prevedibili.

Sto parlando della battaglia per l’innalzamento del debito federale degli Stati Uniti.

Un po’ di numeri ci aiutano a capire che non si tratta di un evento così straordinario: dal 1960 il tetto del debito è stato innalzato 78 volte, di cui l’ultima volta nel 2021. 49 aumenti sono avvenuti con la presidenza repubblicana e 29 con la presidenza democratica.

Visto così, e se gli uomini e gli investitori agissero razionalmente, non dovrebbe destare eccessiva preoccupazione un settantanovesimo aumento.

Quando parliamo di crisi bancarie, evochiamo alla memoria, istintivamente il 2008.

Se parliamo di litigi fra fazioni politiche per l’innalzamento del debito, finiti poi nel modo peggiore, evochiamo il 2011.

Era Presidente Obama, che, come ora Biden, aveva perso nelle lezioni di mid-term la maggioranza del Congresso.

Non fu piacevole. Fu come un tempesta rapida, se preferisci un tornado, nulla di paragonabile all’agonia lunga del 2008.

Proprio per questo, più facile da cancellare dalla memoria, a maggior ragione con la memoria cortissima che ha il mercato, e che continua imperterrito ad accorciare sempre più.

Nel 2011, gli Stati Uniti furono in default tecnico per tre settimane. Standard & Poor’s declassò il debito degli Stati Uniti. E quel declassamento è la conseguenza visibile, ancora oggi, di quel tornado.

I mercati azionari reagirono male. Sempre molto neutrali rispetto alla politica e pronti a salire sul carro dei vincitori, i mercati sono stati apparentemente insensibili nella fase iniziale della crisi.

Poi, presero maledettamente sul serio quello che stava avvenendo.

Obama aveva lanciato un ultimatum: entro il 2 agosto accordo sul debito o sarà default. Un po’ come la Yellen oggi, che ha posto la data limite al primo di giugno.

Non fu raggiunto un accordo in tempo, e il 6 agosto Standard & Poor’s (che secondo me attendeva l’occasione buona da tempo) declassò il debito americano.

Sui mercati, ad inizio maggio, l’S&P500 aveva toccato il massimo a 1373.50.

A giugno, con normale stagionalità, del tutto estranea al problema debito, fece un minimo a 1256. Poi riprese il rialzo, e, sempre con perfetta stagionalità, a luglio fece un massimo a 1354, un po’ più basso di quello di maggio.

Passarono tre lunghe settimane di lateralità nella zona dei massimi, un su e giù, non troppo dissimile da quello che abbiamo visto di recente nelle ultime settimane.

Poi, fra l’ultima settimana di luglio e la prima di agosto, in concomitanza con l’ultimatum di Obama, la reiterata incapacità della politica di trovare un accordo e, tanto per metterci un po’ di pepe sopra, l’intervento di Standard & Poor’s, i mercati si arrabbiarono sul serio.

Nella prima settimana di arrabbiatura, il minimo fu a 1163, nella seconda 1077. Un micidiale -21.5% dai massimi di maggio.

Non finì così facilmente.

Per nove settimane, i prezzi andarono in laterale sul fondo del barile. Alla fine della nona settimana di lateralità in agonia, un minimo più profondo a 1068 segnò la fine della lateralità e la ripresa del mercato.

La media mobile a 200 settimanale attraversò la linea dei prezzi costantemente in quelle nove settimane, con oscillazioni continue sopra e sotto.

A ottobre, la ripresa sembrava avvenuta, con il mercato tornato a lambire, senza toccarla, quota 1300.

Ma non fu ancora sufficiente. Perché a novembre, i mercati andarono a ritestare i minimi, atterrando dolcemente a 1147, di nuovo sulla media mobile a 200 e più in basso della prima settimana di arrabbiatura di fine luglio-inizio agosto, ma più in alto dei minimi successivi.

Poi, il mercato archiviò l’incidente. I mercati tornarono a festeggiare la grande America che allegramente espandeva il proprio debito, ma finanziava in questo modo il capitalismo più sfrenato del globo. Nella primavera del 2012, l’S&P500 superava 1400.

Avverrà qualcosa di simile?

Ieri, Biden ha incontrato il senatore McCarthy. Non sembra ne sia uscito nulla di buono. Ora, il pallino di questa partita di bigliardo è in mano a loro, mentre la Yellen guarda sbigottita e, forse, un po’ incredula.

Deve essersi chiesta, un po’ come è accaduto a Powell, se doveva toccare a lei di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato ….

In un imperdibile webinar, parliamo di come affrontare una crisi di mercato, fronteggiando le onde in arrivo. Anzi, come trarre profitto dall’onda avversa, se ci sarà.

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P.S.: Immagino tu non abbia trovato altrove il parallelo che ho costruito sopra. Eppure è storia, acclarata. Ora ti spiego perché.

E’ molto semplice. Il problema è sempre lo stesso. La memoria del mercato è già corta di suo, come già detto, ma non solo …

Dai mercati si viene espulsi facilmente. E chi è oggi sul mercato, in grande maggioranza, non ha visto il 2008-2009, che ha eliminato una intera generazione.

Così, quelli che nel 2010-2011 hanno ricominciato … erano troppo inesperti, avevano altro a cui pensare, dovevano ancora imparare: una generazione intera si stava ricreando, in attesa della successiva eliminazione (il Covid ci è riuscito, solo parzialmente, perché è durato poco).

E, ovviamente, questa generazione presente sui mercati, sempre-giovane e spesso sempre-rampante e pronta a prendere il primo trombone come esempio, si guarda bene dallo studiare sul serio i mercati dal punto di vista della Cultura storica.

Troppo noioso, poco eccitante, la Cultura viene scambiata per l’informazione quotidiana, per il pattern vincente, per il volo pindarico allo scopo di cercare di battere i mercati.

E andremo avanti per molti secoli in questo modo: dimenticando quello che è avvenuto solo 12 anni prima, perché, alla fine, il 60% delle opzioni presenti sul mercato scade entro la settimana … e allora la domanda sbagliata è: che ci faccio della Cultura storica?

Con questo errore madornale di cui sono colpevoli la maggior parte di chi si fregia del titolo di “esperto”, il mercato va avanti.

E pochi squali continueranno a mangiare tanti pesci piccoli, che hanno la presunzione di essere molto furbi.

E’ la Cultura che batte i mercati. Non altro.

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Ci incontriamo a Torino venerdì 23 giugno, nell’Aula d’Onore della prestigiosa Università degli Studi SAA, scuola di management aziendale.

Un incontro come avveniva un tempo, prima della pandemia. Completamente gratuito.

Ma con una formula nuova e completamente diversa, un evento pensato, finalmente, per questi difficili anni venti: strategie operative messe a mercato insieme, per imparare i modelli migliori e per condividere una esperienza unica di grande Cultura finanziaria di altissimo livello.

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Maurizio Monti

  Editore TRADERS’ Magazine Italia