I mercati sono imbattibili nel fiutare la scena politica e capire quel che c’è dietro la retorica di facciata.
Il fatto che venerdì scorso, con l’approssimarsi dello shutdown, puntualmente arrivato a fine giornata, continuassero a salire come se niente fosse, ci ha anticipato che in effetti niente sarebbe stato.

Il tempo di un weekend per accorgersi che chiudere lo Stato e lasciare a casa senza stipendio centinaia di migliaia di dipendenti pubblici non è uno spot pubblicitario molto azzeccato, né per la maggioranza, né per l’opposizione, ha fatto fare un passo indietro alle due parti. Grazie al silenzio di Trump, che per una volta si è astenuto dal fomentare la rissa, è bastata una vaga promessa dei repubblicani che il problema dei “dreamers” sarebbe stato esaminato, per convincere i democratici a concedere altre 3 settimane (fino all’8 febbraio) di finanziamenti provvisori che permettano la riapertura degli uffici pubblici e consentano di trattare ancora un po’ per arrivare all’approvazione definitiva della legge di bilancio, che dovrà accompagnarsi all’innalzamento del tetto del debito, ormai sfondato da quasi 4 mesi di esercizio provvisorio oltre i limiti di legge previsti.

Dubito fortemente che quel che non è stato possibile fare in tutto questo tempo, si possa fare nelle prossime 3 settimane. Ovvero un accordo per approvare un aumento di deficit e di debito pubblico che dovrà essere così consistente da finanziare i regali fiscali di Trump e le sue ambizioni di ristrutturare le infrastrutture americane, e che sia digeribile dalla vasta corrente repubblicana del “Tea Party”, allergica all’aumento del debito e dell’ingerenza della Stato nell’economia.

Per cui quello che è stato deciso ieri è l’ennesimo calcio al barattolo, che si ripresenterà tra i piedi a febbraio. Rivela il disagio di un Partito Repubblicano ostaggio del suo Presidente troppo ingombrante e   l’inconsistenza politica di un Partito Democratico senza leader e incapace di incanalare in proposte e personaggi organicamente alternativi al populismo rabbioso di Trump il forte dissenso che le proteste dei giorni scorsi hanno mostrato.
Ed allora, come sempre più spesso capita, i mercati festeggiano l’incapacità politica e gli stalli negoziali, occupando con la speculazione senza regole lo spazio che le disastrate istituzioni politiche non riescono più a coprire in modo credibile.

Wall Street ieri ha così potuto estendere il rialzo, andando a frantumare l’ennesimo massimo storico, ed anche gli indici europei, un po’ più faticosamente, si sono potuti avvicinare ai loro massimi del 2017, mentre il nostro Ftse-Mib, il più tonico d’Europa, ha ormai nel mirino i massimi del 2015, a 24.157.  Intanto entra oggi nel vivo, nella cittadina Svizzera di Davos, una volta all’anno ombelico del mondo, il World Economic Forum, l’happening del capitalismo mondiale, che celebrerà l’accelerazione della crescita mondiale a suon di debiti, che il FMI stima per il 2018 al tasso di +3,9%, e riceverà l’omaggio di capi di stato e di governo al gran completo, mai così numerosi come quest’anno. Non mancherà nessuno di quelli che contano, dal cinese Xi all’indiano Modi, alla Merkel.

Ci sarà persino il mesto Gentiloni, accompagnato dal fido scudiero Padoan. Ma soprattutto venerdì il gran finale sarà monopolizzato dalla superstar della manifestazione, nientepopodimeno che Donald Trump, che ha previsto di trasferire in Svizzera gran parte del suo Governo, in gita premio per ascoltare come il capo galvanizzerà la platea.
Intanto, fuori dalla zona rossa blindata ed inibita ai non invitati, il freddo non impedirà a sparuti gruppi di contestatori di cacciare idealmente un dito nell’occhio ai potenti della terra.

Ci ha già pensato OXFAM, la grande organizzazione benefica, che anche quest’anno, nel vano tentativo di rovinare la festa del capitalismo selvaggio, ha pubblicato il suo rapporto annuale, che ci fornisce un sacco di dati su cui riflettere.
Innanzitutto è avvenuto il sorpasso: quest’anno l’1% più ricco al mondo possiede più ricchezze di tutto il resto dell’umanità. Lo squilibrio aumenta sempre più, dato che l’enorme ricchezza creata lo scorso anno è finita per l’82% ad ingrassare le casseforti dell’1% più ricco al mondo, mentre il 50% più povero ha avuto in media un miglioramento della sua ricchezza pari a 0 (zero!). Secondo i dati di Credit Suisse, mentre nel 2016 per eguagliare la ricchezza del 50% più povero del pianeta bastavano le 89 persone più ricche del mondo, oggi ne bastano solo 61.

Fatti due calcoli significa che ci vuole la ricchezza di circa 61 milioni e mezzo di poveri (quasi la popolazione italiana) per eguagliare i beni a disposizione di un solo ricco Epulone. La settima parte dell’aumento di ricchezza che hanno ricevuto lo scorso anno i 2.043 miliardari presenti sulla terra basterebbe ad eliminare dal pianeta la povertà assoluta, che oggi colpisce 789 milioni di persone.

Eppure l’opinione pubblica occidentale è paralizzata dalla fobia per i migranti e dalla paura per l’invasione dei poveri. Non so se succede anche a voi, ma, leggendo i dati del rapporto OXFAM, a me viene il dubbio che, più che essere noi occidentali ad aver paura dei poveri, dovrebbero essere loro ad aver paura di noi.

 

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